NOTE STONATE (?).
L’ ORGANETTO.
Ricordo,
sul far della sera,
le note di quella canzone
fra nebbie vaganti. Leggera
saliva al verone
la
voce che, senza armonia,
composta di note stonate
nasceva là, in fondo alla via.
Di cose passate
sentivo
un profumo diffuso,
un’eco di gioia e tristezza,
vivevo in un mondo soffuso
di pace, d’ebbrezza.
E
mentre ascoltavo, pian piano,
cessaron le note morenti,
svanendo in un mondo lontano
di cose dormienti.
(Alfredo Ferraro)
C’era
una volta …
Tutte
le favole cominciano così.
Ma questa non è una favola. Questa è storia vera, di vite
vissute, del rumore dei passi dei nostri genitori e dei nostri familiari. Di carezze,
di voci care, ormai flebili, che ancora, con sempre maggiore difficoltà, tenti
di ricordare. Sono le “ombre” di tutti coloro che ci hanno preceduto, che mi
hanno preceduto, la cui esistenza mi consente, oggi, di calcare ancora questa
terra.
Il loro ricordo diventa via via sempre meno distinto: l’età
e il trascorrere del tempo tentano impietosamente di cancellarli. Bisogna allora
fermarli sulla carta, i ricordi, prima che sia troppo tardi.
*****
(Tratto da “Carrube e
Cavalieri” di Raffaele Poidomani)
“… La nonna è davanti la porta della vigna,
sotto l’arco coperto di edera; il suo grembiule si allarga sul ventre ampio e
sereno, le sue labbra carnose sorridono alla mia gioia; un filo di sole,
l’ultimo, tenta di scavalcare il muro, ma non ce la fa più, è evidente: ormai
non ci sarà fino a domani per tutti il territorio del Mauto.
- Non
mangiarlo, ora; dopo la cena, se no perdi l’appetito.
Dov’è questa voce che non riesco a plasmare? Dove sono tutti
coloro che tanto mi sono stati vicino, che han fatto parte di me stesso, nel
modo più assoluto, con i quali ho diviso la prima parte della mia vita, dove
sono?
E’ possibile ch’essi siano scomparsi per sempre, senza
lasciar traccia alcuna, che non esistono più, veramente non sono come mai
fossero stati? …”
Forse quell’orologio asmatico (tic-toc, tic-toc) che si
caricava a molla (tic-toc, tic-toc), e che dimorava panciuto e compiaciuto sul “comò” della stanza da letto dei miei
genitori, forse già segnava le dieci di
sera, quando mio padre mi disse: “accompagnala
tu la nonna a casa”.
Orgoglioso come sempre per tanto importante incarico (non
era la prima volta) mi preparai all’incombenza nel mentre la nonna Nina, la
madre di mio padre, indossava il suo scialle nero.
Potevo avere dieci anni? Se è così, la nonna andava per i 68
anni. Dio mio! Era meno vecchia di quanto lo sono oggi io!
La strada che portava al numero 1 della Via Giardini era
breve. Si camminava assieme, certe volte con la mano nella mano “ … a passi tardi e lenti …”. Poi, la
chiave che entrava nella toppa della porta ed il rumore di ferro contro ferro. La
porta si apriva. Entravamo. La nonna per prima ché accendeva una flebile
lampadina elettrica. Salivamo i gradini della scala che conduceva al primo
piano.
Era quella la casa che l’aveva vista sposa con mio nonno
Giovanni. Era la casa dove i suoi figli erano nati e cresciuti ed alcuni anche
morti. Era la casa dove aveva vegliato suo marito sul letto di morte. Era la
casa che frequentemente veniva invasa da tanti vocianti nipoti, e fra essi
anch’io. Era la casa che abitava da sola, ma tanto piena di ricordi.
Figliuoli Antonina – questo era il suo nome --. Ma per tutti
era “a nanna Nina”. Nacque a Ragusa
il 19 settembre dell’anno 1885.
Aveva appena sedici anni quando sposò mio nonno Giovanni. Era il 17/8/1901.
Mise alla luce un rosario di figli: Ignazio, Rosario,
Giorgio, Emanuele, Cristina, Giovanni, Vincenzo, Salvatore e qualcun altro,
gemelli compresi, che l’Onnipotente chiamò subito a Sé immediatamente dopo la
loro nascita, i cui nomi si sono smarriti nell’oblio del tempo.
Era una donna oltremodo bella, dai capelli riccioluti e voce da soprano:
dote che trasmise alla nipote Nina, figlia di Giorgio, che, senza fortuna, studiò lirica.
Certamente non nuotava nell’oro,
ma si faceva bastare la piccola pensione di reversibilità che “Don Giuvanni u
funtanieri” (suo marito e mio nonno) aveva maturato lavorando alle dipendenze
del Comune di Ragusa.
Il suo cuore era grande quanto una
casa: riusciva sempre a ritagliare dalla pensione qualcosa da dare, con estrema discrezione, alla famiglia di quei suoi figli che, per avventura o
disavventura, non riuscivano a far quadrare i conti: “… tieni, Mariula --
diceva a mia madre porgendole qualche spicciolo -- comprici i causetti (i calzini) e picciridi
…”.