A casa, quel giorno, riusciva a stento a respirare. Il
naso s’era assottigliato: era il segnale dell’imminente scadenza. Chiamammo il
medico. Su suo consiglio lo portammo all’ospedale: “Lì, potranno assisterlo meglio”.
Bugie del medico verso di noi.
Bugie nostre verso di lui.
Tutti sapevamo cosa stava per accadere. Ma ognuno
mentiva all’altro. Un misero gioco delle parti per un evento, naturale?, che nessuno sa affrontare: la morte. Che di
regola, riguarda gli altri. Non noi!
Lui, Papà, invece aveva capito tutto.
Ci apostrofò con un doloroso “Mi ni stati mannannu!” (Mi state mandano via!).
E noi a continuare a mentire, spudoratamente!
Ma a chi? A lui o a noi stessi?
Stava in piedi dentro la vasca da
bagno. Aveva appena terminato di lavarsi. Scivolò in modo scomposto sul fondo reso
viscido dal sapone. E cadde. Andò battere pesantemente il costato sul bordo
della vasca. Emise un grido strozzato. Mia
madre accorse. Lo trovò boccheggiante per il dolore. Lo aiutò a rialzarsi. Alcuni
giorni dopo una lastra al torace evidenziò due costole incrinate ed un grosso
versamento di sangue all’interno del polmone. “Le costole non destano preoccupazione
– disse il medico --; il sangue sarà lentamente riassorbito”. Invece non si
riassorbì.
Ora era disteso su un letto dell’ospedale. Le lenzuola
bianche, bianco il cuscino su cui poggiava il capo:
appena un teschio, con ancora attaccati pochissimi capelli bianchi resi sottili
dal male che lo aveva divorato e che ora stava completando la sua devastante
opera. Le ossa del volto e delle mani erano ricoperte da una sottile pelle grigiastra
e diafana.
L’aria non riusciva più a raggiungere quei pochi spazi
liberi dei suoi polmoni. Troppo saturi di quella immonda bestia che li aveva
invasi. Gli occhi, ancora vivi, ne richiedevano tanta. Ma gliene sarebbe
bastata almeno un poco di aria. Che arrivò. Sotto forma di ossigeno tramite la
mano pietosa di un medico. Insufficiente comunque per soddisfare tanta bramosa arsura,
insufficiente per poter continuare a vivere.
Poi, un giorno, un colpo di tosse
a soffocare. E un piccolo fiotto di sangue. Inizia il Calvario. Visite,
radiografie, broncografie. I risultati invariabilmente eguali: cancro ai
polmoni. Una sentenza di morte passata in giudicato.
E ancora la corsa a Napoli,
all’Ospedale Monaldi (un nome orribilmente tetro per me, ancor oggi, a distanza
di tanti anni). Lì, operava il Professore Ricler, un “maestro” del bisturi nel
campo oncologico, mi dissero.
Trascorse quasi un mese dal
ricovero, nel mentre la “bestia” continuava la sua opera di invasione e
demolizione. Poi, finalmente, l’attesa telefonata: “ siamo pronti per
l’intervento chirurgico”.
Partii con mia madre che per la
prima ed ultima volta prese l’aereo. “Ma cos’è – mi chiese guardano fuori dal
finestrino --, schiuma da barba?”. Erano semplici grosse nubi bianche!
Arrivammo finalmente al Monaldi.
L’incontro di mia madre con mio
padre? E’ una ricchezza tutta mia, e non voglio condividerla con alcuno. Forse!
Entrò in sala operatoria. Ne uscì
dopo nemmeno un’ora.
Il chirurgo: “Abbiamo aperto e
richiuso. Troppo esteso il male!”
Domando: “Quanto, Professore?”
Rispose: “Più o meno sei mesi. Mi
dispiace!”.
Ritornammo a casa. Ed ancora
menzogne. Le mie: per mia madre, per i
miei fratelli, per i familiari, per Lui: “Tutto bene, erano delle cisti polmonari,
sono state asportate. Lentamente si riprenderà! Lentamente ti riprenderai!
Ci sono pesi che nessuno da solo deve
mai ardire di caricarsi. Ci sono pesi che vanno distribuiti fra tutti! Ognuno
ne ha il diritto. Ognuno ne ha il dovere.
L’ultima notte gli rimase accanto il minore dei suoi cinque figli. Che la mattina seguente, al mio arrivo,
mi dice che Papà durante la notte aveva sete e che aveva bevuto un’intera tazza
di latte. Un buon segno, mi chiese, visto che non riusciva a deglutire neppure una goccia d’acqua?
Non risposi! Sapevo come gli antichi e i vecchi definivano
questo evento: “a bunnanzia ‘a morti“
(l’abbondanza della morte).
Il suo Calvario durò più dei sei
mesi vaticinati. Cadde sotto la sua croce più di tre volte. Cercò di rialzarsi altrettante volte: “da militare ho fatto il Bersagliere” – mi
diceva con ancora un velato tono di orgoglio --. Intanto
le metastasi invadevano ogni organo,
ogni anfratto del suo corpo. E lo sbranavano, crudelmente, senza un attimo di
sosta, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, giorno e notte, notte e giorno,
riducendolo sempre più ad una larva umana!
Era quasi mezzogiorno quando mia madre mi chiamò: ”CORRI!”.
Entrai. Gli occhi di mio padre erano
ancora aperti ma mostravano solo il bianco. Chiamai i medici. Arrivarono. Gli somministrarono
subito un inutile cardiotonico. Poi un
gesto di disappunto con il capo e
l’invito: “portatelo a casa!”.
L’aria non entrava più nei suoi polmoni, neppure un
briciolo. Ma il suo torace continuava ad alzarsi e ad abbassarsi ritmicamente.
Ma sempre più lentamente! Si alzava e si fermava: “Dio, è morto?”. Si abbassava
e si fermava: “Dio, ma quanto tempo ci vuole per morire?”. Sempre più
lentamente … sempre più lentamente … Poi,
la pace. Finalmente la sua pace.
Era il 22/12/1976.
Aveva da poco compiuto 63 anni.
Non andartene docile in quella buona
notte.
di
Dylan Thomas
Non andartene docile in quella buona
notte,
i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
perché dalle loro parole non diramarono fulmini
non se ne vanno docili in quella buona notte,
i probi, con l'ultima onda, gridando quanto splendide
le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
troppo tardi imparando d'averne afflitto il cammino,
non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
infuria, infuria, contro il morire della luce.
Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
perché dalle loro parole non diramarono fulmini
non se ne vanno docili in quella buona notte,
i probi, con l'ultima onda, gridando quanto splendide
le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.
Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
troppo tardi imparando d'averne afflitto il cammino,
non se ne vanno docili in quella buona notte.
Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.
E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.