domenica 16 novembre 2014

Ho visto morire mio padre!



A casa, quel giorno, riusciva a stento a respirare. Il naso s’era assottigliato: era il segnale dell’imminente scadenza. Chiamammo il medico. Su suo consiglio lo portammo all’ospedale:  “Lì, potranno assisterlo meglio”.

Bugie del medico verso di noi.

Bugie nostre verso di lui.

Tutti sapevamo cosa stava per accadere. Ma ognuno mentiva all’altro. Un misero gioco delle parti per un evento, naturale?,  che nessuno sa affrontare: la morte. Che di regola, riguarda gli altri. Non noi!

Lui, Papà, invece aveva capito tutto.

Ci apostrofò con un doloroso “Mi ni stati mannannu!” (Mi state mandano via!).

E noi a continuare a mentire, spudoratamente!

Ma a chi? A lui o a noi stessi?

Stava in piedi dentro la vasca da bagno. Aveva appena terminato di lavarsi. Scivolò in modo scomposto sul fondo reso viscido dal sapone. E cadde. Andò  battere pesantemente il costato sul bordo della vasca. Emise un grido strozzato.  Mia madre accorse. Lo trovò boccheggiante per il dolore. Lo aiutò a rialzarsi. Alcuni giorni dopo una lastra al torace evidenziò due costole incrinate ed un grosso versamento di sangue all’interno del polmone. “Le costole non destano preoccupazione – disse il medico --; il sangue sarà lentamente riassorbito”. Invece non si riassorbì.

Ora era disteso su un letto dell’ospedale. Le lenzuola bianche, bianco il cuscino su cui poggiava  il  capo: appena un teschio, con ancora attaccati pochissimi capelli bianchi resi sottili dal male che lo aveva divorato e che ora stava completando la sua devastante opera. Le ossa del volto e delle mani erano ricoperte da una sottile pelle grigiastra e diafana.
L’aria non riusciva più a raggiungere quei pochi spazi liberi dei suoi polmoni. Troppo saturi di quella immonda bestia che li aveva invasi. Gli occhi, ancora vivi, ne richiedevano tanta. Ma gliene sarebbe bastata almeno un poco di aria. Che arrivò. Sotto forma di ossigeno tramite la mano pietosa di un medico. Insufficiente comunque per soddisfare tanta bramosa arsura, insufficiente per poter continuare a vivere.

Poi, un giorno, un colpo di tosse a soffocare. E un piccolo fiotto di sangue. Inizia il Calvario. Visite, radiografie, broncografie. I risultati invariabilmente eguali: cancro ai polmoni. Una sentenza di morte passata in giudicato.
E ancora la corsa a Napoli, all’Ospedale Monaldi (un nome orribilmente tetro per me, ancor oggi, a distanza di tanti anni). Lì, operava il Professore Ricler, un “maestro” del bisturi nel campo oncologico, mi dissero.
Trascorse quasi un mese dal ricovero, nel mentre la “bestia” continuava la sua opera di invasione e demolizione. Poi, finalmente, l’attesa telefonata: “ siamo pronti per l’intervento chirurgico”.
Partii con mia madre che per la prima ed ultima volta prese l’aereo. “Ma cos’è – mi chiese guardano fuori dal finestrino  --, schiuma da barba?”.  Erano semplici grosse nubi bianche!
Arrivammo finalmente al Monaldi.
L’incontro di mia madre con mio padre? E’ una ricchezza tutta mia, e non voglio condividerla con alcuno. Forse!
Entrò in sala operatoria. Ne uscì dopo nemmeno un’ora.
Il chirurgo: “Abbiamo aperto e richiuso. Troppo esteso il male!”
Domando: “Quanto, Professore?”
Rispose: “Più o meno sei mesi. Mi dispiace!”.
Ritornammo a casa. Ed ancora menzogne. Le mie:  per mia madre, per i miei fratelli, per i familiari, per Lui: “Tutto bene, erano delle cisti polmonari, sono state asportate. Lentamente si riprenderà! Lentamente ti riprenderai!
Ci sono pesi che nessuno da solo deve mai ardire di caricarsi. Ci sono pesi che vanno distribuiti fra tutti! Ognuno ne ha il diritto. Ognuno ne ha il dovere.

L’ultima notte  gli rimase accanto il minore dei suoi cinque  figli. Che la mattina seguente, al mio arrivo, mi dice che Papà durante la notte aveva sete e che aveva bevuto un’intera tazza di latte. Un buon segno, mi chiese,  visto che non riusciva a deglutire  neppure una goccia d’acqua?
Non risposi!  Sapevo come gli antichi e i vecchi definivano questo evento:  “a bunnanzia ‘a morti“ (l’abbondanza della morte).

Il suo Calvario durò più dei sei mesi vaticinati. Cadde sotto la sua croce più di tre  volte. Cercò  di rialzarsi altrettante volte:  “da militare ho fatto il Bersagliere” – mi diceva con ancora un velato tono di orgoglio  --.  Intanto le metastasi  invadevano ogni organo, ogni anfratto del suo corpo. E lo sbranavano, crudelmente, senza un attimo di sosta, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, giorno e notte, notte e giorno, riducendolo sempre più ad una larva umana!  

Era quasi mezzogiorno quando mia madre mi chiamò: ”CORRI!”. Entrai. Gli occhi di mio padre  erano ancora aperti ma mostravano solo il bianco. Chiamai i medici. Arrivarono. Gli somministrarono subito un inutile cardiotonico.  Poi un gesto di disappunto con il capo  e l’invito: “portatelo a casa!”.

L’aria non entrava più nei suoi polmoni, neppure un briciolo. Ma il suo torace continuava ad alzarsi e ad abbassarsi ritmicamente. Ma sempre più lentamente! Si alzava e si fermava: “Dio, è morto?”. Si abbassava e si fermava: “Dio, ma quanto tempo ci vuole per morire?”. Sempre più lentamente …  sempre più lentamente … Poi, la pace. Finalmente la sua pace.

Era il 22/12/1976.  Aveva da poco compiuto 63 anni.


Non andartene docile in quella buona notte.
di Dylan Thomas
Non andartene docile in quella buona notte,
i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
infuria, infuria, contro il morire della luce.

Benché i saggi conoscano alla fine che la tenebra è giusta
perché dalle loro parole non diramarono fulmini
non se ne vanno docili in quella buona notte,

i probi, con l'ultima onda, gridando quanto splendide
le loro deboli gesta danzerebbero in una verde baia,
s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.

Gli impulsivi che il sole presero al volo e cantarono,
troppo tardi imparando d'averne afflitto il cammino,
non se ne vanno docili in quella buona notte.

Gli austeri, prossimi alla morte, con cieca vista accorgendosi
che occhi spenti potevano brillare come meteore e gioire,
s'infuriano, s'infuriano contro il morire della luce.

E tu, padre mio, là sulla triste altura maledicimi,
benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.

Infuriati, infuriati contro il morire della luce.


giovedì 28 novembre 2013


Accadde più di settant’anni fa.
Aveva piovuto tutta la santa giornata. Poi verso sera spiovve. Il freddo era rimasto, intenso, pungente. Le misere lampade pubbliche a mala pena rischiaravano brevi tratti delle stradine di Ibla. A sinistra, salendo, laterale alla Chiesa di San Tommaso Apostolo, un'insegna nera, dalle rosse lettere traforate, avvisava i viandanti che quella era la "Locanda Volpo”.
Due figure femminili: mia Nonna (Antonina Figliuoli) e mia Madre (Maria Spatuzza) varcavano il cancello che immette nella “filora”. Incuranti dell’inclemenza del tempo, strettamente avvolte nei loro scialli neri, braccio sotto braccio certamente per trasmettere l’una all’altra un po’ di sicurezza e di calore, avanzavano a passi lenti lungo i viali, dirette alla “fiuredda” della Madonna della Luce, protettrice delle partorienti.
Il vento freddo sferzava in loro tutto ciò che gli scialli non coprivano: gli occhi.
Avanzavano lentamente  in un buio pesto da tagliarsi con un coltello: in quel tempo “a filora” era priva di un qualsiasi accenno di pubblica illuminazione.  
Avrebbero voluto tornare indietro. Ma non potevano. Non volevano. Quella era la sera, come tante altre sere precedenti, dedicata alla periodica visita alla Madonna della Luce. Lei le stava aspettando. Non potevano mancare.
Arrivarono vicino alla Chiesa del Crocifisso. L’alto pino di “Papé Tunnina” gemeva sotto il vento. Gli facevano eco gli altri alberi e le siepi. Sembrava il lamento doloroso di tante anime in pena.
Le due donne rabbrividirono.
-          “Mamà” – disse mia Madre a mia Nonna – “non si vede niente!”.
-          Rispose mia Nonna: “Non ti preoccupare, Mariula, la Madonna ci guida”.
Non aveva finito, mia Nonna, di pronunciare queste parole, che un Luce misteriosa si formò sopra di loro, illuminando il viale e i loro passi.
La paura che premeva i loro cuori si trasformò in terrore. Ma la fede nella Madre di Cristo, le sospinse in avanti.
Guidate dalla Luce, arrivarono  davanti all’altarino della Madonna. Sostarono e pregarono. Le preghiere uscivano dalle loro labbra a stento, biascicate, incomprensibili. Ma certamente a Lei gradite, visto che la misteriosa Luce sostava ancora con loro davanti a quella SACRA IMMAGINE.
Consumate le preghiere le due donne volsero i passi per ritornare a casa. La Luce le guidò fino al portone della Chiesa del Crocifisso, poi …, così come era comparsa, sparì.
-          “Mamà” --- proferì a denti stretti mia Madre, ancora in preda al terrore – “avete visto anche Voi la Luce?”
-          “Sì, figlia mia, l’ho vista. Maria ci ha guidate”.
Tanto mi raccontò una sera d’inverno mia Nonna, con mia Madre che annuiva a conferma di ciò, al calduccio (si fa per dire) delle braci di una “conca” di rame.
Ed io non ho mai avuto motivi, come non ne ho oggi, per non credere in loro: “Ci sono più cose in cielo e terra di quante ne sogni la nostra filosofia”.

venerdì 14 settembre 2012


“… chi fuor li maggior tui? …”
                                                                                                                    (Dante- Inferno X°,42)




                                         Da parte paterna (Cappello)







E’ un bellissimo gruppo di famiglia. Vediamo chi sono:
In piedi: da sinistra: zio Peppino Distefano (marito di zia Cristina); zio Giorgio Cappello (nato il 14/4/1910); zio Emanuele Cappello (nato il 7/8/1911); Giovanni Cappello (mio padre nato il 12/11/1913); zio Vincenzo Cappello (nato il 9/8/1917);
Seduti, da sinistra: zia Cristina Cappello (nata il 28/10/1907); Giovanni Cappello (mio nonno, nato l’ 8/10/1879); Antonina Figliuoli (mia nonna, nata il 19/9/1985); zia  Adelina Gurrieri (moglie di Rosario nata il 3/11/1906); seduto sulle gambe il figlio Franzo Cappello; zio Rosario Cappello (nato 2/7/1902);
Seduti per terra, da sinistra: Giovanni Cappello (figlio di Adelina e Rosario, nato l’ 11/2/1927); Giovanna Distefano (figlia di Cristina, nata il   ); zio Salvatore Cappello (nato il 6/6/1922).




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Da parte materna (Spatuzza)



Per questo ramo non esiste, purtroppo, una foto di gruppo familiare.

 















                                             
Giovanni Spatuzza (mio nonno)                             Salvatrice Mirabella (mia nonna) 
nato il 23/1/1882                                                    nata il 28/12/1891
                                                                      




Ed ecco i loro figli:
























                                                                                                                                        
 Concetto Spatuzza                                                     Grazia Spatuzza                        
 Nato il                                                                        Nata il 5/2/1916                                                                                                                                

 

















Maria Spatuzza (mia madre)                                Michela Spatuzza       
Nata il 19/10/1917                                               Nata l’ 11/11/1921

giovedì 19 luglio 2012

NOTE  STONATE (?).



L’ ORGANETTO.
Ricordo, sul far della sera,
le note di quella canzone
fra nebbie vaganti. Leggera
saliva al verone

            la voce che, senza armonia,
composta di note stonate
nasceva là, in fondo alla via.
Di cose passate

            sentivo un profumo diffuso,
un’eco di gioia e tristezza,
vivevo in un mondo soffuso
di pace, d’ebbrezza.

            E mentre ascoltavo, pian piano,
cessaron le note morenti,
svanendo in un mondo lontano
di cose dormienti.

                           (Alfredo Ferraro)








                                        


C’era una volta …

Tutte le favole cominciano così.

Ma questa non è una favola. Questa è storia vera, di vite vissute, del rumore dei passi dei nostri genitori e dei nostri familiari. Di carezze, di voci care, ormai flebili, che ancora, con sempre maggiore difficoltà, tenti di ricordare. Sono le “ombre” di tutti coloro che ci hanno preceduto, che mi hanno preceduto, la cui esistenza mi consente, oggi, di calcare ancora questa terra.

Il loro ricordo diventa via via sempre meno distinto: l’età e il trascorrere del tempo tentano impietosamente di cancellarli. Bisogna allora fermarli sulla carta, i ricordi, prima che sia troppo tardi.


*****
(Tratto da “Carrube e Cavalieri” di Raffaele Poidomani)
“… La nonna è davanti la porta della vigna, sotto l’arco coperto di edera; il suo grembiule si allarga sul ventre ampio e sereno, le sue labbra carnose sorridono alla mia gioia; un filo di sole, l’ultimo, tenta di scavalcare il muro, ma non ce la fa più, è evidente: ormai non ci sarà fino a domani per tutti il territorio del Mauto.
-         Non mangiarlo, ora; dopo la cena, se no perdi l’appetito.
Dov’è questa voce che non riesco a plasmare? Dove sono tutti coloro che tanto mi sono stati vicino, che han fatto parte di me stesso, nel modo più assoluto, con i quali ho diviso la prima parte della mia vita, dove sono?
E’ possibile ch’essi siano scomparsi per sempre, senza lasciar traccia alcuna, che non esistono più, veramente non sono come mai fossero stati? …”

Forse quell’orologio asmatico (tic-toc, tic-toc) che si caricava a molla (tic-toc, tic-toc), e che dimorava panciuto e compiaciuto sul “comò” della stanza da letto dei miei genitori,  forse già segnava le dieci di sera, quando mio padre mi disse: “accompagnala tu la nonna a casa”.

Orgoglioso come sempre per tanto importante incarico (non era la prima volta) mi preparai all’incombenza nel mentre la nonna Nina, la madre di mio padre, indossava il suo scialle nero.

Potevo avere dieci anni? Se è così, la nonna andava per i 68 anni. Dio mio! Era meno vecchia di quanto lo sono oggi io!

La strada che portava al numero 1 della Via Giardini era breve. Si camminava assieme, certe volte con la mano nella mano “ … a passi tardi e lenti …”. Poi, la chiave che entrava nella toppa della porta ed il rumore di ferro contro ferro. La porta si apriva. Entravamo. La nonna per prima ché accendeva una flebile lampadina elettrica. Salivamo i gradini della scala che conduceva al primo piano.

Era quella la casa che l’aveva vista sposa con mio nonno Giovanni. Era la casa dove i suoi figli erano nati e cresciuti ed alcuni anche morti. Era la casa dove aveva vegliato suo marito sul letto di morte. Era la casa che frequentemente veniva invasa da tanti vocianti nipoti, e fra essi anch’io. Era la casa che abitava da sola, ma tanto piena di ricordi. 

Figliuoli Antonina – questo era il suo nome --. Ma per tutti era “a nanna Nina”. Nacque a Ragusa il 19 settembre dell’anno 1885. 




Aveva appena sedici anni quando sposò mio nonno Giovanni. Era il 17/8/1901.

Mise alla luce un rosario di figli: Ignazio, Rosario, Giorgio, Emanuele, Cristina, Giovanni, Vincenzo, Salvatore e qualcun altro, gemelli compresi, che l’Onnipotente chiamò subito a Sé immediatamente dopo la loro nascita, i cui nomi si sono smarriti nell’oblio del tempo.

Era una donna oltremodo bella,  dai capelli riccioluti e voce da soprano: dote che trasmise alla nipote Nina, figlia di Giorgio, che, senza fortuna,  studiò lirica.

Certamente non nuotava nell’oro, ma si faceva bastare la piccola pensione di reversibilità che “Don Giuvanni u funtanieri” (suo marito e mio nonno) aveva maturato lavorando alle dipendenze del Comune di Ragusa.

Il suo cuore era grande quanto una casa: riusciva sempre a ritagliare dalla pensione qualcosa da dare, con estrema discrezione, alla famiglia di quei suoi figli che, per avventura o disavventura, non riuscivano a far quadrare i conti: “… tieni, Mariula -- diceva a mia madre porgendole qualche spicciolo -- comprici   i causetti (i calzini) e picciridi …”.

sabato 19 maggio 2012

prima luce

Prima luce. E' il momento in cui un nuovo telescopio guarda per la prima volta le stelle.